“Da bambino volevo guarire i ciliegi…”.
Sono le parole, inizio di una bellissima canzone di De André, che mi risuonano in testa da alcuni giorni: gli stessi “alcuni giorni” trascorsi a pensare come inserirmi in questo blog, cercando una prospettiva – personale ma non troppo – da cui guardare il mondo della fotografia, e delle immagini in generale. Finché alla fin fine il chiodo fisso musicale ha inevitabilmente influenzato le mie riflessioni (perché non sono mai stata in grado di slegare tra di loro percezioni e pensieri differenti) e ho cominciato a interrogarmi sulla mia, di infanzia, e sul modo in cui la mia passione per l’immagine sia nata.
E ho scoperto, o meglio ri-scoperto, che da bambina, anziché voler guarire i ciliegi, volevo “fare i libri”. Io, che però non disponevo dei mezzi necessari per realizzare il mio sogno – così come non ne dispongo ora, d’altronde – avevo quindi iniziato a sfogliare compulsivamente i libri per cercare di carpire la loro magia. E ho capito fin da subito che i libri maggiormente affascinanti erano quelli in cui parole e illustrazioni si fondevano a vicenda. È stato così che le storie e le conoscenze veicolate dai libri si sono fissate indelebilmente nella mia testa solo se legate a delle immagini: degli episodi della Bibbia, di Pinocchio, delle nozioni elementari del mio primo libro di matematica e via a seguire, mi ricordo innanzitutto le immagini che li corredavano. Immagini che spesso non erano granché, se riviste oggi: smaccatamente “anniottanta”, o anche “annisettanta”, se il libro era ereditato da qualche fratello o cugino più grande, ma in entrambi i casi prive di particolare fascino.
Poi sono cresciuta e le immagini dei libri hanno cominciato progressivamente ad avere uno spazio minore, fino a ridursi a rigorosi apparati illustrativi di quattro-cinque pagine isolati nel mezzo del libro, oppure a nulla: immagini che io ritenevo comunque necessarie per la piena comprensione di quello che stavo leggendo, ma che a quel punto ero costretta a cercare altrove, nella mia fantasia o in qualche altro libro, in un’enciclopedia e, più tardi, su Internet. Ovviamente so di non essere l’unica, a provare questa “disperata” nostalgia delle illustrazioni, ma dopotutto negli anni ho conosciuto anche tante persone che dalle immagini erano quasi infastidite o, meglio, che avevano la necessità di fruire immagini e parole in maniera indipendente, associandole tra di loro magari in un secondo momento.
D’altronde tale valutazione vale anche in senso opposto: ho sempre amato le immagini – fotografie oppure dipinti o, ancora, illustrazioni, incisioni e disegni e chi più ne ha più ne metta –, tant’è vero che ne ho fatto il mio ambito di studio. Ma ho sempre ritenuto che esse, per avere un valore aggiunto, dovessero essere accompagnate da parole, fossero mere didascalie oppure poesie ispirate dalle stesse immagini, o ancora testi scritti dai loro autori che ne spiegavano in qualche modo il retroterra teorico.
La dimostrazione di questa complementarietà l’ho poi avuta di recente, visitando una mostra di Robert Capa: mi sono trovata di fronte delle immagini bellissime, capaci sicuramente di colpire chi le guarda senza bisogno di chiose ulteriori, ma per le quali le lunghe e dettagliate didascalie sono state essenziali nel capire le circostanze storiche dello scatto e poter approfondire così l’interesse nei loro confronti.
Insomma, tutta questa lunga premessa solo per dire che l’argomento che affronterò in questo blog sarà proprio questo, il rapporto tra parola e immagine, con uno sguardo specifico sull’Italia. Nei prossimi mesi mi armerò di penna e taccuino e girerò metaforicamente per lo “stivaletto” cercando per voi i più interessanti casi di collaborazione tra scrittori e fotografi, o tra scrittori e artisti visivi. Sempre con la convinzione che immagine e parola siano benissimo in grado di reggersi in piedi da sole, ma che il loro intreccio non possa che portare a un “di più”, un qualcosa di magico quasi come i libri che sfogliavo voracemente da bambina.
Lara Piffari
Immagini © Lara Piffari